La nascita e la prima infanzia nel mondo antico rappresentano l’oggetto di studi interdisciplinari che stanno dimostrando la grande complessità dei temi del parto, della speranza di vita alla nascita e delle preoccupazioni sociali e sanitarie che si appuntano attorno ai neonati. I dati epigrafici, da soli, non sono utili a ricostruire in modo attendibile la mortalità materno-infantile, perché sottostimano la morte in fasi molto precoci, mentre tendono a privilegiare la registrazione della morte tra bambini più grandi, adolescenti e giovani adulti; tornano a trascurare la morte in età avanzata. L’integrazione con il dato della ricerca sul materiale scheletrico non risolve del tutto il problema, sia perché le sepolture di madri e bambini sono occasionali, sia per la fragilità delle ossa dei neonati che spesso ne compromettono la conservazione, sia per le modalità di sepoltura riservate a Roma e nei territori dell’Impero ai neonati e ai bambini molto piccoli.  Anche le fonti testuali sulle primissime fasi della vita sono limitate, perché la gestione dei bambini era affidata alle donne, la cui voce non arriva a noi in testi scritti, se non in modo indiretto. Tuttavia, la possibilità di incrociare i dati dello studio quantitativo epigrafico e antropologico con le evidenze qualitative, come quelle delle fonti storiche, giuridiche e mediche, aiuta a comprendere meglio quanto il parto fosse insieme un evento socialmente molto rilevante e un momento di estrema fragilità nella vita della madre e del bambino. Spesso nutrite meno dei maschi, soprattutto in contesti sociali umili, le bambine romane potevano essere date in spose già attorno ai 12 anni; l’incompleto sviluppo delle ossa pelviche, insieme all’età precoce, costituivano il primo elemento di rischio per parti difficoltosi. Sorano, un medico greco che lavora a Roma agli inizi del II secolo d.C., ci ha lasciato un trattato (Gynaekia) che descrive in modo dettagliato le modalità in cui il parto era preparato e condotto in presenza di sole donne. Un ruolo importante era svolto dall’ostetrica, che doveva essere colta e preparata, sensibile e di buon carattere, coraggiosa e pronta. Il parto poteva svolgersi sulla sedia da parto. La mortalità da parto era alta; il cesareo si praticava solo in casi eccezionali su madre morta, nel tentativo di salvare il bambino. L’esistenza di strumenti chirurgici per embriotomia, lo smembramento del feto morto in utero a fini di estrazione, suggeriscono scenari drammatici legati al momento della nascita. Analoghe storie raccontano epigrammi come quello di Candida che, dopo quattro giorni di travaglio, perde la vita (CIL III 2267); Plinio il giovane racconta di due giovani sorella della nobiltà romana, morte di parto alla fine del I d.C., dopo aver partorito due bambine sane (Ep. IV,21).

Per saperne di più:

  • Gourevitch, M. Rapsaet Charlier, La donna nella Roma antica. Firenze, Giunti, 2003
  • Montanini, Nascita e morte del bambino a Roma. Ager Veleias 2010, 5, 11
  • Dasen, Childbirth and Infancy in Greek and Roman Antiquity. In: A Companion to Families in Greek and Roman Worlds. 2011, cap. 18
  • Gazzaniga, V., La medicina antica. Roma, Carocci, 2014
  • Carroll, Infancy and Earliest Childhood in the Roman World. A fragment of time. Oxford University Press, 2018

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