La storia della disabilità è, in antico, strettamente associata alla storia dell’infanzia: non solo perché la maggior parte delle fonti mediche si dedica alla disamina di difetti congeniti, evidenti sin dai primissimi istanti di vita, ma anche perché l’infanzia è in sé stessa intesa come un periodo di incompiutezza e difetto, in cui la fragilità del corpo, la malattia e la mortalità sono massime. Una combinazione di fattori quali la malnutrizione, le malattie, la consanguineità, l’esaurimento fisico, gli incidenti, gli sport pericolosi, le guerre e il parto avrebbero prodotto un gran numero di persone disabili.
Una storia sistematica del concetto di disabilità nell’antichità sui tentativi di ‘riparare’ corpi intesi come mancanti o difettosi è ancora in parte da scrivere. La scarsità di lavori sul tema della disabilità e del suo trattamento nel mondo antico è spiegabile attraverso la scarsità delle fonti letterarie e mediche greche e latine, attraverso la rarità delle attestazioni “oggettive” (ossa o reperti biologici mummificati), cui la paleopatologia si possa dedicare per la ricostruzione dell’incidenza di certe forme patologiche; attraverso la difficoltà di combinare testimonianze giuridiche interessanti, con la ricostruzione della reale percezione sociale e culturale antica della “deformità; la necessità di considerare lo schermo deformante imposto dalle sopravvivenze del racconto mitologico, spesso nascosto ma rielaborato nelle fonti razionali anche di natura scientifica e medica; le difficoltà interpretative poste dall’iconodiagnostica, cioè dall’interpretazione delle immagini o della statuaria che presentano segni di possibili difetti, malformazioni o incompletezze corporee; la consapevolezza della iperestensione, in antico, delle categorie della marginalità, che includono, almeno dal punto di vista medico, anche le donne, i bambini e gli anziani perfettamente sani; le difficoltà insormontabili nella diagnosi retrospettiva, resa molto difficoltosa dalla registrazione nei testi medici di segni clinici significanti all’interno della teoria ippocratico-galenica e oggi, spesso, privi di valore interpretativo; la confusione tra forme patologiche e indistinzione tra malattie congenite e acquisite; lo scarso valore concettuale attribuito all’idea del “miglioramento” di condizioni cliniche che non possono essere pienamente riportate alla norma, cioè a quella felicità del corpo ed equilibrio ideale a cui tutti i testi medici antichi si ispirano come ideale di salute.
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